Kathmandu, Luglio 2008 |
Anni
di speranze per un nuovo progetto civile
e politico sfumati in pochi istanti. Il progetto della Costituzione nepalese è
fallito. Da settimane ormai non si fa che parlare d’altro. Del futuro del
paese. C’è chi parla di nuove elezioni a Novembre e chi, nostalgicamente,
auspica un ritorno alla monarchia.
Accantonando
i progetti utopistici, vale la pena di fermarsi per riflettere sull’accaduto.
Il progetto di dividere il Nepal su base etnica non poteva che essere un flop.
La visione federalista su base castale non poteva che essere un delirio
prontamente contestato dai vari gruppi che si sono sentiti emarginati. La mappa
costituzionale era piuttosto complessa. Attualmente il Nepal è diviso in 75
distretti, in ognuno di questi è presente un gruppo etnico-castale più o meno
prevalente. Pensare ad un federalismo che accontenti tutti significa decidere a monte di deludere i più. A questa difficile situazione
si aggiunga la moltitudine di nazionalità diverse presenti nel paese: indiani,
tibetani, mongoli. A loro volta i nepalesi non sono semplicemente “nepalesi” ma
troviamo diversi gruppi con tradizioni e spesso lingue completamente
diverse: madhesi, newari, tamang, limbu, tarhu, gurung, magar e così via; 60
gruppi etnici e più di 100 caste. Non c’è da sorprendersi se un tamag non
riesca a comunicare con un newari. In Nepal vengono parlate un centinaio di
varietà linguistiche. Realtà così
diversificate sono presenti anche in India ma gli indiani non ipotizzerebbero
mai di dividere lo Stato in base a tali differenze. Sarebbe una follia! La situazione indiana è già
abbastanza complessa così e gli attriti non hanno mai tardato a manifestarsi.
Vadasi
per il federalismo, ma con giusto criterio. Decentrare il potere in uno stato
nato da così poco e con una classe politica a volte incerta o incompetente può essere un’interessante
prospettiva a patto che questa non inneschi, come ha fatto fino ad ora,
sommosse popolari.
Il
dilemma non è da poco conto. La divisione territoriale creerebbe mescolanza e
convivenza tra gruppi molto diversi. La divisione su base etnico-castale
creerebbe degli squilibri e delle forti minoranze che non avrebbero voce in
capitolo dal punto di vista politico e sociale. La prima soluzione sembrerebbe la
meno rischiosa perché quella più vicina alla consuetudine degli ultimi secoli.
Ma
la decisione era troppo importante e difficile e il governo maoista si è tirato
indietro lasciando il paese alla deriva, nonostante la predisposizione verso un
progetto etnico che prevedeva 14 territori dominati dai gruppi che si sono
maggiormente distinti durante la guerra civile.
Le cose non sono così semplici: anche con la prospettiva
delle elezioni di novembre gli animi sembrano non volersi chetarre. Il Congress
Party, rappresentato in larga misura dalle prime due caste, i bahun e chhetri,
non scenderà facilmente a compromessi con i maoisti. La loro, diciamolo, è una
scelta conveniente: si rifiuta la
prospettiva maoista per far rimanere più o meno inalterata una divisione
territoriale nella quale hanno sempre dominato, in ogni campo. Il Congress
accusa inoltre il governo maoista di aver deliberatamente aizzato le rivolte
civili per timore di perdere il potere guadagnato con le elezioni del 2008.
Una
soluzione sarebbe quella di una possibile coalizione di tutti i gruppi etnici
minori. Ciò significa però coordinamento, consapevolezza, obiettivi comuni,
spirito di sacrificio e abilità politica. Come si può pretendere tutto questo
da uno stato così giovane e inesperto? Sarebbe come affidare un liceo alle mani
di un gruppo nutrito di studenti dei primi anni. Un’esperienza interessante ma
rischiosa. Il Nepal ha sofferto troppo e da troppo poco tempo. Nei ricordi dei
nepalesi ci sono ancora i massacri della guerra civile, un fantasma che non si
può cancellare così facilmente. Forse la salvezza è in questo timore, nell’insicurezza
e nella ponderatezza che scongiurano
violenze troppo efferate.
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