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lunedì 7 aprile 2014

L'Incrocio tra Venezia e Jhumpa Lahiri

Dedico questo post agli amici indofili che non hanno potuto partecipare a questo incontro. In particolare a Clara Nubile, ringraziandola per lo scambio di parole, libri e articoli, dall'India all'Italia, caratterizzato da un'incredibile serie di coincidenze.

Altera, riservata e serissima. Jhumpa Lahiri arriva a Venezia e dona tanto e poco di sè al pubblico di Incroci di civiltà accorso  per l'ultimo importante incontro dell'edizione 2014. Certo resta sullo sfondo il confronto con gli autori indiani che hanno concluso le passate edizioni : Rushdie, Ghosh, Seth, Naipaul. E' forse così spiegabile lo sguardo algido della bellissima quarantottenne bengalese.
L'incontro comincia con la lettura di un brano tratto dal suo ultimo romanzo, The Lowland. Legge in italiano e sorprende il pubblico per il suo accento quasi impeccabile.
La Lahiri è un'autrice di "seconda generazione" nella letteratura anglo-indiana. La prima generazione è quella degli autori che hanno impresso una svolta  decisiva  nel panorama linguistico di questo ambito. Basti ricordare i Figli della mezzanotte di Rushdie nel 1980 o il Dio delle piccole cose di A. Roy nel 1997. The Interpreter of maladies, la  prima raccola di racconti della Lahiri, esce due anni dopo, nel 1999.
Il suo esordio con la scrittura nasce lentamente dopo la laurea, con la partecipazione ad un corso di scrittura creativa a Boston. In quell'ambiente, per la prima volta, si sente realmente appartennete ad un gruppo; per la prima volta sente di poter definire una propria identità che non sia quella sempre in bilico tra una cultura e l'altra.
E quando comincia a scrivere le sorge un dubbio: quale cultura descrivere? Quella bengalese o quella indiana? L'aiuto, la risoluzione di tale dubbio, l'ispirazione, le giungono spesso dalla sua famiglia, dai racconti di suo padre, un piccolo grande uomo che esattamente 50 anni fa lasciò Calcutta per Londra e, successivamente, con una moglie e una figlia, per gli Stati Uniti.
La scrittura la aiuta a risolvere una sensazione di straniamento continuo che avverte in una terra che le appartine completamente e, allo stesso tempo, solo in parte.
La scrittura, per svolgere la sua funzione, deve essere abitudine, una disciplina ferrea, qualcosa con cui avere un contatto quotidiano.
Di una storia Jhumpa Lahiri individua un ingresso, varca una soglia. Scene, personaggi e situazioni vengono poi naturalmente. La scelta di un'entrata parte da uno spazio buio, una stanza ignota nella quale scegliere, cercare, trovare, fallire e ricominciare. Le stanze della scrittura, del racconto e del romanzo, coesistono in lei come in un palazzo, un'antica residenza Rajput piena di misteri e bellezza da scoprire.
Lo spunto a volte nasce da una storia vera, un episodio  realmente accaduto per le strade di Calcutta. E' questo il caso di Lowland: l'evento reale è l'uccisione di due fratelli avvenuta davanti agli occhi impotenti dei genitori. Da questo evento la scrittrice bengalese comincia a limare la sua storia, a creare tragicità e speranza.
Le ispirazioni, gli incipit, le idee per una storia vengono sviluppate e poi abbandonate per poi essere riprese e rimanipolate, a volte ancohe dopo 10 anni. Quello dello scrittore è un lavoro artigianale, meticoloso.
Racconti o romanzi. In tutte le sue opere è sempre lo stesso l'assillante tema: la diversità, la difficoltà dell'integrazione. E' così anche per Gogol, protagonista del suo primo romanzo, Namesake. Anche questa volta lo spunto arriva da un evento reale: il nome bizzarro di un ragazzino di Calcutta. Personale e reale è anche il difficile rapporto che la scrittrice ha con il suo nome in una società, quella americana, così diversa da quella indiana.
Il ritorno al racconto, nel fluire oscillante della scrittura della Lahiri, arriva con "Unaccustomed Earth" del 2008. Protagonisti sono questa volta giovani indiani di seconda e terza generazione alle prese con una realtà quotidiana che si è allontanata sempre più dall'India. E' in questa raccolta che fa capolinea l'Italia, nella trilogia finale di racconti ambientati a Roma e a Volterra.
Ma è con Lowland, La moglie (nell'edizione italiana) che la Lahiri torna al romanzo e quasi definitivamente in India. Il tono piatto, asciutto, scarno, paratattico di questo ultimo lavoro è il frutto di una scelta studiata, un allontanamento consapevole dall'artificiosità del fraseggiare inglese. Una scelta voluta che la soddisfa ma che, forse, a breve cambierà.
Oggi la Lahiri vuole scrivere in italiano. Per questo ha cominciato la collaborazione con la rivista settimanale Internazionale. L'italiano è il mezzo per fuggire dall'inglese e per fare un sondaggio di se stessa. Tale scelta rientra nella sua mancanza di reale appartenenza ad una lingua, sia quella bengalese che quella inglese.
L'interesse per l'Italia chude l'incontro. E' una riflessione su Venezia quella che la scrittrice legge salutando timidamente il pubblico, quel pubblico al quale,  quasi mai  per un'ora e mezza di dialogo, ha rivolto lo sguardo contenuto e pudico. Descrive in italiano  Venezia e la definisce inquietante ed onirica, dalla topografia disordinata. Venezia è il luogo dove è costante il dialogo tra ponti e calli. Scrivere in un'altra lingua equivale ad attraversare un ponte: l'inglese scorre sotto i piedi come l'acqua naturale, l'acqua che manaccia di inghiottirla. Ma i ponti aiutano ad evitare il contatto con l'acqua, la aiutano a salvarsi. Lo smarrimento naturale di ogni straniero  a Venezia equivale allo smarrimento della scrittura in italiano: una sensazione sconvolgente e intrigante, necessaria.
La Lahiri veneziana passa da un ponte all'altro con lingue e storie diverse che affascinano il suo pubblico

domenica 23 marzo 2014

Jhumpa Lahiri a Incroci di civiltà

Come ogni anno segnalo la partecipazione indiana o anglo indiana alla manifestazione culturale veneziana Incroci di Civiltà. Sabato 5 Aprile, alle ore 18.00, presso l'Autitorium di Santa Margherita di Venezia, sarà presente la scrittrice Jhumpa Lahiri.
Il rapporto della Lahiri con l'Italia è ormai di lunga data. Nata da genitori bengalesi e cresciuta a Londra e negli Stati Uniti, ha sempre avuto un rapporto difficile con la lingua nativa. La scrittura la avvolta  nella naturalezza dell'inglese e oggi la vita l'ha portata a vivere a Roma dove un'altra lingua, l'italiano, l'ha stregata e appassionata. Del suo interessante e intricato rapporto con le lingue  la Lahiri parla in una serie di brevi racconti che stanno uscendo sul settimanale Internazionale.
Il testo che l'ha resa nota al pubblico italiano è la raccolta di racconti L'interprete dei malanni. Opera che le è valsa il Premio Pulitzer per la narrativa del 2000.
I racconti della Lahiri sono esperienze lontane e vicine dall'India. Emerge il vissuto di chi risiede ormai lontano dal suo paese e cerca di ricostruirsi una vita. Ambientazione spesso americana, spesso legata la mondo universitario dei campus, spesso legata a giovani mogli non scelte e poi accettate. Emergono il dolore per la lontananza; lo sfondo della guerra per l'indipendenza del Bangladesh e la fratellanza bengalese in America; la povertà il dolore e la dignità del popolo indiano; la difficoltà di adattarsi ad una nuova vita; il successo e la sete di denaro e riconoscimento sociale.
In Una nuova terra (2008) protagonisti sono sempre immigrati (più spesso personaggi femminili) di seconda generazione dall’India o dal Bengala agli Stati Uniti, specchio evidente della situazione vissuta in prima persona dalla scrittrice stessa.
Dal romanzo Namesaze, L'omonimo, la regista Mira Nair ha invece tratto il celebre  film Il Destino del nome. Recentemente in Italia è uscito, sempre per l'editore Guanda, il romanzo La moglie. Questa volta la Lahiri sceglie un'ambientazione è quasi  totalmente indiana, quella di Calcutta. La storia di due fratelli molto diversi tra di loro e del nobile gesto di uno di loro: salvare una donna sola dall'ignoranza e crudeltà di una certa mentalità bengalese.